Monologhi della vigna: in fermento

la cantina è in rivoluzione; il mosto sta procedendo: nel silenzio del mondo si sente il bollore della magia della trasformazione: zuccheri che diventano alcool…

non posso perdere tempo nemmeno oggi

anche oggi devo agire, ossigenare, muovere le bucce, affondare il cappello premendo sul follatore

devo annusare, guardare, ascoltare, assaggiare…la fermentazione procede, i profumi inebriano, l’anidride si sparge nell’aria ed io non posso fermarmi…

misura, spilla, muovi, cambia, annota…un giorno dopo l’altro nella corsa che porta dall’uva al mosto, da mosto al vino

ho le mani appiccicose e le dita nere, è lo zucchero che dalla vendemmia ti penetra la pelle, è il colore dell’uva che di prende e ti conquista e che diventa parte di te

ho le dita nere, il segno dell’intimo matrimonio tra me, l’uva, il mosto e il vino: il frutto del matrimonio tra me e la terra

ma ora sono qui, con le dita nere e preparo qualcosa per gli amici che verranno: il lardo, affumicato con il ginepro, sarà ottimo per i nostri vini, affetto il salame che viene dai campi all’orizzonte della vigna e dispongo il formaggio che viene dalla valle

sono le piccole cose che raccolgo dagli amici, pronte a fare conoscere alla piccola fetta di mondo che decide di passare da qui

e sarà bello confrontarsi, condividere, notare le impressioni, valutare le espressioni

è un po’ freddo oggi e non è l’ideale bere il rosso così freddo, ma la stagione è questa, si sentiranno di più i tannini, ma non so se chi verrà a degustare lo capirà, ma non importa, anche questo fa parte della vita

non so nemmeno come ha fatto a trovarmi, chi decide, non sapendo dove andare di prendere una strada che non porta quasi a nulla per venire a trovare me, nel mio paradiso

vedranno le dita nere, ma in questi giorni respireranno il mosto

a volte di inizia con un po’ di freddezza, a volte prevale la timidezza, qualcuno addirittura è un po’ guardingo nel valutare quello che dico, ma finisce sempre con un abbraccio, con la promessa di tornare, tutti consapevoli che le ore passate insieme e attorno ad una bottiglia di vino sono in fondo una fetta di vita che entra nel bagaglio di ciascuno di noi

vedono le dita nere, perché ho messo le mani nel mosto, nelle bucce e nel vino e lo zucchero mi è entrato nella pelle, arrivando nell’anima come il profumo del primo vino

quando verso il vino il silenzio prepara l’attimo della degustazione: in fondo sono venuti qui per questo, per conoscere il mio vino, non per conoscere me

forse ne venderò un po’

è l’atto finale del lungo processo della mia passione ma vorranno sapere di tutto, come è fatto, cosa faccio, come avviene, cosa avviene, i trucchi, i segreti, come evolve, come fosse possibile spiegare davanti a un piatto e a un po’ di vino il miracolo della vita, il miracolo della natura

mi chiederanno cose che non ricorderò: i giorni di fermentazione, l’età della barrique, la temperatura di una certa fase: a volte non ricordo, qualche volta non lo so

qualcuno arriverà all’essenza del miracolo che entra nel bicchiere e solo pochi capiranno, nel loro intimo, che io ho solo fatto il guardiano di un processo antico che non ha bisogno di altro se non del tempo, della pazienza e della passione 

mi chiederanno quale è il vino che preferisco dei miei: quale annata, quale vitigno, ma non ho mai risposta, so solo raccontare la stagione del vino: il vino che viene dall’uva che ha preso più sole, quello che ha preso talmente tanta grandine che ancora arrabbiato, il vino che si è fatto aspettare e il vino che verrà

ci sarà pure un vino migliore dell’altro, quello più buono, quello venuto meglio, si, lo so, ma non riesco veramente a rispondere a una domanda così 

…molti capiscono, molti no, qualcuno mi parlano del difetto che ogni tanto scorgono nel bicchiere di quel particolare sapore, del fatto che qualche mese prima era diverso oppure solo qualche minuto fa…

io so perché è così, so quale scelta in quel momento quel vino ha preso quella strada, forse era la sua strada, forse anche la mia, ed è allora che penso che alla fine ogni vino abbia un senso, per buono e cattivo che sia, e soprattutto penso che il vino, quel vino, non solo sia frutto della vigna della stagione e del lavoro del vignaiolo, ma quando viene bevuto diventi il compimento del ciclo della vita

di tutte quelle persone rimarrà qualcosa del loro passaggio, come a loro rimarrà qualcosa del tempo passato qui

Monologhi della vigna: verso la vendemmia

raccolgo i piccoli grappoli, salendo tra i filari; oggi la vigna è ordinata e precisa, e ha attraversato le stagioni: guardo le gemme che ho curato l’inverno, fino a quando sono divenute foglie, e poi rami e poi hanno portato il frutto che adesso raccolgo,

è un ordine che parte dalla potatura di inverno: è allora che guardo le gemme, che decidiamo dove crescere e scelgo cosa tenere; sarà da quelle gemme che nascerà la foglia, nascerà il ramo, nasceranno i frutti, sarà da quelle gemme che inizierà la crescita furiosa di aprile, l’allungo di maggio, quando cerchiamo, io e la vite, l’ordine

e cammino e salgo e raccolgo: mastico, respiro, e annuso, pensando al vino che verrà

l’ordine è di chi anela al cielo, ma è attirato dalla terra: produrrà e allungherà i suoi viticci che, come per magia, troveranno un ramo, un filo, e con infiniti movimenti senza muscoli, un magico movimento fatto da intime cambi di forme, di bilanci di densità, di differenze di temperatura che fanno muovere cose che l’uomo distratto e chino sulle pendenze giornaliere non riuscirebbe mai ad immaginare, eh sì, perché la vite di muove, si cerca, si parla, si ama…. oggi io, ritrovo su quei rami, i grappoli, la vita, il futuro, ma anche il passato delle scelte che ho fatto e tutte le volte che l’ho osservata camminandoci

e cammino e salgo e raccolgo: mastico, respiro, e annuso, pensando al vino che verrà

la vite al mattino è reattiva e le foglie sono le foglie ritte e vive, pronte alla nuova giornata, fresche dal sonno e dal risveglio; si orientano al sole perché le piante si muovono e sanno quello che vogliono e anche le foglie si muovono…ruotando verso il sole, in un eterno equilibrio di chimica che è movimento, che le apre verso il sole, e le piega, quasi a nascondersi, quando invece l’arsura le coglie impreparate; come a dire, oggi non servi, mio sole, se mi privi anche di poco di quell’acqua che è vita 

e intanto continuo, raccolgo i piccoli piccoli grappoli da piante oggi ordinate e precise, ogni grappolo al suo posto

oggi devo capire quando vendemmiare, e cammino e raccolgo: un acino in cima al grappolo, un acino in mezzo, un acino vicino al peduncolo, un grappolo vicino al tronco, un grappolo lontano, devo chiedere alla vite se è pronta: le giornate si accorciano in questo inizio autunno, la vite è stanca, le foglie si ingialliscono

mastico l’acino, lo annuso, l’aria entra nel naso, cerco di percepire in vino che verrà, in un respiro un anno: la raccolta, la diraspatura, la svinatura e il travaso, la fermentazione, il riposo, tutto passa in un respiro dalla narice al cervello per cercare di capire se è tempo per il raccolto

mastico il vinacciolo, è marrone, non è più verde e non ha astringenza: sembra nocciola, sembra gradevole forse è ora, forse è il momento

guardo il cielo è limpido, sta albeggiando e il sole sorge illuminando il mondo

non è facile salire su quelle linee dritte senza sosta lunghe e ripide: tutte le volte pensi di non avere più l’età. Ma passo dopo sasso, pianta dopo pianta devo salire, raccogliendo, masticando, e intanto respiro con l’affanno che cresce

anche per me una nuova stagione, una vita, in questa vita che è vite

e intanto annuso, immagino il vino che verrà: cammino, e salgo e raccolgo. Ogni anno diverso, ogni anno speciale, mi fido dell’istinto del naso e del tempo, di quello che vedo, di quello che sento e di quello che faccio

quest’anno la pianta è stanca, non ce la fa, le prime foglie del ramo stanno appassendo, solo all’apice la clorofilla lavora e porta: spinge succhia raccoglie dal terreno quello che le ultime energie le lasciano, la terra è dura, compatta, di sasso, anche l’erba di solito invadente sembra soffrire

e cammino e salgo e raccolgo: mastico, respiro, e annuso, pensando al vino che verrà

l’orizzonte è limpido, il freddo la mattina comincia ad essere stringente, occorre decidere: al gusto l’acino è fresco, il nocciolo è croccante, il peduncolo è ormai legno; da oggi l’uva non ha più nutrimento e comincia ad appassire

non è facile capire come se è ora per la vendemmia, l’uva cambia, di pianta in pianta, la vendemmia è una; ci sono piante rigogliose, alcune piante meno, i rimpiazzi più giovani stanno già fruttificando e tutto entrerà nel vino, nello stesso vino

riguardo il sole che nasce, ci saranno ancora delle belle giornate, la temperatura non è ancora scesa forse ce la facciamo a resistere ancora un po’ e portare l’uva in cantina perfetta

cammino, salgo, raccolgo, mastico, respiro annuso gusto

non ci sono nuvole, non ci sarà grandine andiamo avanti… verso la vendemmia

Monologhi della vigna: la stagione

sto raccogliendo grappoli, eppure sono passati pochi mesi da quando la vigna, dopo la potatura, ha cominciato a crescere; è allora che non ho più il tempo di raccogliermi a pensare: cresce, si muove, mi cerca, pende, si raddrizza e io devo correre, su e giù, in lungo e in largo

… nella vigna… 

non si ferma la natura, non ha sabati, non ha domeniche e così io, che salgo scendo e mi sposto in lungo e in largo

devo sottostare a quello che la natura decide per l’annata nella mia stagione: a volte la pioggia abbonda, a volte di acqua la natura è avara e soffriamo la sete, a volte diluvia, e a volte porta gocce che sono ghiaccio

ed io ad impazzire tra previsioni, piogge, erogatori, zolfo, rame finché mi fermo stremato e puzzolente darmi il tempo per bere quel vino che a volte non mi fa respirare, non mi fa dormire, non mi fa sognare

ormai lo conosco il mio vigneto, ogni zona, ogni angolo, ogni pianta, se potessi fare un vino per ogni pianta otterrei infiniti vini diversi, ogni pianta un terreno, una vigoria, una maturazione, dei grappoli diversi, ogni zona la sua caratteristica e ogni vino il suo carattere

che peccato perdere in cantina queste piccole differenze quando unisci il vino per l’imbottigliamento e chissà cosa si perde quando chi ha vigneti enormi deve produrre tantissime bottiglie dello stesso vino

ogni vino è frutto di impulsi naturali, è la voglia di crescere e di riprodursi, il vino è figlio della vigna in cui la vite ha scelto di accoppiarsi, è figlio della stagione che la vite e la vigna hanno condiviso, è figlio anche delle scelte dell’uomo che decide quante gemme, quanta cura, quando raccogliere e come vinificare

il tutto in una bottiglia: da quando inizia, quando potare, come potare, quando tagliare e quanto tagliare, quando raccogliere quanto raccogliere quando travasare come pressare e come vegliare

eh sì 

è così che l’uva diventa vino ed è così che il vino assume i mille sapori, le mille fragranze, della vita, della vigna, della stagione, dell’uomo e della vita

Monologhi della vigna: un lungo viaggio

ho radici, ma percorro un viaggio da seimila anni: accompagno l’uomo, i suoi sogni, la sua voglia di evadere; lo accompagno nelle notti allegre e nelle mattine tristi; lo accompagno nella sua fatica giornaliera, con i suoi umori, con le sue gioie, con le sue tristezze

apprezzo i suoi gesti lenti, lunghi, pensati e pensanti e ho bisogno che mi accompagni nel cammino della vita e nel cammino della stagione; è il protagonista della mia vita e della mia migrazione, e lui ha bisogno di me, dei miei frutti e dei miei sogni

sono partita da lontano e ho percorso un filo magico sospeso tra il caldo e il freddo, l’umido e il secco, dove la notte si divide con giorno, dove il giorno non è mai troppo corto e la notte non è mai troppo lunga, mai troppo caldo, mai troppo freddo

è difficile camminare quando hai delle radici, quando sei fatto per vivere nella terra e per la terra, ma la terra di mezzo, la terra tra il freddo e il torrido, è fatta da uomini curiosi, da uomini operosi e da uomini ingegnosi, gli uomini che hanno avuto sempre voglia di sognare

è così che ho conosciuto rocce, sabbie e vulcani; ho navigato e scalato montagne; ho ubriacato eroi, ladri ed assassini; poeti e folli navigatori, ma sempre ed in ogni luogo ogni mia pianta e ogni mia vigna hanno trovato l’uomo che le cura e il terreno che le culla

è così che vicino al mare più limpido o alle distese infinite, nelle colline più aspre o sui vulcani più caldi, per me l’uomo ha liberato foreste e modellato terreni, ed è così che ho trovato il mio luogo, il mio letto, il mio cielo dove potessi esprimere il maglio dai mie frutti, dispensando buonumore e tristezze, allegria e torpore

è dalle mie uve e dalla mia vigna che l’uomo ricava il suo vino; dalle uve e da questa vigna, dalle mie uve, con mio uomo, dal il mio terreno…ed in ogni posto un’uva, un vino, un uomo, un terreno ogni volta diverso…

Monologhi della vigna: la grandine

il cielo si incupisce…

arrivano nuvole, basse, sorde…

tutto il grigio del mondo è ciel…

nemmeno il sole fa sapere dove si trova, tanto è spessa la coltre di nubi; nubi pesanti, nubi lorde, nubi sorde che portano pensieri di terrore

il vento si prende il palcoscenico: suoni e movimenti riempiono lo spazi, le piante ondeggiano e sembrano esprimere la loro paura; sordi tuoni arrivano da lontano: arriveranno fino a qui? arriverà la grandine? arriverà il terrore?

mi chiedo chi possa essere colui che ordisce questa trama fitta, cupa e imperscrutabile, drammatica e comica, questa trama che è come la vita, imprevedibile e a volte terribile

chi può mettere in scena il grigio più cupo, tutte le paure, e chi possa in un attimo trasformarlo nel cielo più limpido e terso

a volte le nubi corrono veloci fino ad arrivare a scatenare l’inferno lasciando basito e inerme quel povero uomo che corre nella sua vigna, inseguendo l’annata, inseguendo il suo vino

il cielo si incupisce…

la vigna è pronta e richiude le sue foglie su sé stesse, si fanno più piccole, quasi a nascondersi della guerra che forse tra poco si scatenerà: chi ordisce questa trama non sarà mai sensibile al mio dolore, e forse si divertirà a sentire l’affanno e le speranze di chi è vittima della sua bizzarria

le prime gocce cadono, sono rare e pesanti,

ma non è pioggia lieve, come quella di primavera, quando accarezzando il terreno lo fanno fiorire, ma nemmeno la pioggia continua d’autunno, che ti stanca e ti infreddolisce, ma che non porta sventure se non quando il terreno lordo e pesante non si abbandona al pendio; è la pioggia d’estate, che ogni volta è una nuova volta, ogni volta è terrore e speranza, tra la vita e la fatica

sarà dura 

quando la pioggia aumenta e il grigio diventa cupo e aumenta il vento, insieme aumenta la paura: a volte come d’incanto il vento si ferma e le mie foglie lentamente si riaprono incredule dello scampato pericolo., a volte arriva lei, la grandine e allora il cuore si addolora pensando a quello che sarà domani, la stagione, il vino

Monologhi della vigna: primavera

piove…la nuova linfa freme e ancora la mia voglia di crescere si fa sentire: i tralci incominciano a sentire il peso dei giorni, cercano il cielo, e nella loro crescita verso il cielo il peso lì piega:

aspirano al cielo, ma lì attira la terra

mi aiuterà l’uomo con il suo gesto paziente che, raccogliendo le mie liane, infilandole a una a una, mi raddrizza, mi pettina, mi rende più bella e così i miei viticci ballando nell’aria riescono ad aggrapparsi a qualcosa di solido: i filo, un altro tralcio, un palo finché alla fine ogni ramo si avvicinerà al suo sogno: arrivare al cielo

mi godo la bella pioggia, che ora è vita, ma quello vita non è solo gioia: a volte è goccia, a volte è torrente, è pioggia che mi lascia il tempo di bere ed è pioggia che mi affonda le radici nel fango, o peggio pioggia che scava, che toglie il respiro, che mi toglie la terra, che ti toglie la vita scoprendo anche le mie intime radici

e allora ogni volta ti trovi, dopo la pioggia sperare il sole, l’afa, l’umido fino a temere che questo folle alternarsi di tempi e di modi non porti la nebbia che oscura le foglie e che si prende i miei grappoli

allora supporto e sopporto l’uomo che con pazienza mi aiuta a trovare la piccola resistenza, mi viene in soccorso la terra, la natura, l’acqua, il sole e allora aspetto quella goccia di acqua, quelle gocce di essenza, di ortica, di salice, di zolfo, di rame, di odore, di sudore, di acqua, di sole, e di tutta la speranza mi accompagna verso l’apoteosi della mia stagione, quello che l’uomo che mi cura chiama vendemmia

e allora sole, pioggia, acqua, rame, zolfo, e ancora acqua, sole, rame, zolfo, e poi sole, pioggia e di nuovo acqua rame e zolfo

chissà se io e l’uomo che mi cura, riusciremo anche quest’anno a portare zucchero nel nostro frutto, e amore nel nostro vino

Monologhi della vigna: inverno

gennaio…un inverno come tanti, forse leggermente più caldo rispetto a qualche anno fa, il sole radente e basso, una leggera foschia all’orizzonte, il verde domina il panorama, un verde tenue, invernale appunto; uno uomo con una giacca rossa, due poiane che si inseguono, un rumore ritmico, il taglio della forbice con cui l’uomo sta potando la protagonista del dialogo di oggi: la vigna.

affronto il freddo di quest’inverno nuda, mi hanno abbandonato le mie foglie, ma mi rimane l’essenziale, il legno, le radici, ed i miei tesori: le gemme

l’uomo che mi cura mi sta spogliando privandomi di ogni pudore: ora sono tornata snella e libera a orpelli, libera da rami, vinaccioli e rametti, pronta per affondare i rami nel cielo

mi riparo dal freddo, dal gelo, godendo degli sprazzi di sole che spesso arrivano, anche ora, a gennaio, e scaldano il mio cuore, mentre aspetto la primavera

l’inverno è acqua, è neve, è pioggia è sole, ma è riposo, concentrazione, ricarica

nell’infinito incedere del tempo, mi ritrovo a fremere per tornare alla vita: aspetto che le giornate inizino ad allungarsi quando qualcosa finalmente succederà: le gemme mi chiameranno, hanno voglia di crescere, si prenderanno la linfa, come ogni anno, come ogni primavera…per spiccare il volo

e allora mi allungo: prima una, piccola e tenue fogliolina si libera dal suo guscio vellutato: la gemma che l’accudiva, e dopo la prima sanno due, tre foglie, e poi quattro, cinque, e poi ancora le altre e finalmente la primavera e la vita ritorneranno a farmi scoprire il cielo

La Palazzago agricola del 1929

Il profondo radicamento agricolo dell’Italia e della Lombardia è cosa nota a tutti. Più difficile avere evidenza oggettiva di questa tradizione grazie al recupero di dati statistici storici.

Un interessante documento però ci fornisce una bellissima fotografia dell’Italia agricola nel 1929 con una analisi molto dettagliata di dati: è il “Catasto Agrario” del 1929 elaborato dall’Istituto Centrale di Statistica del Regno d’Italia che ci permette di approfondire questi dati.

Il documento fornisce interessantissimi dettagli relativi alla produzione agricola di quasi tutti i comuni del regno con una bellissima pagina dedicata a Palazzago presente nella categoria della Zona Agraria V, Colline Bergamasche.

Mi piace riportare qui l’analisi che ho fatto approfondendo i dati relativi al comune di Palazzago.

POPOLAZIONE AGRICOLA

Innanzitutto la popolazione di Palazzago nel 1929 è di 2.476 persone (oggi sono 4.458), il che ne faceva un paese abbastanza popoloso nel 1929. Le famiglie dedicate all’agricoltura erano 242 e contavano 1.618 persone il che ci fa capire che nel 1929 più del 65% delle persone dipendevano dalle attività del mondo agricolo.

La statistica non divide tra componenti del nucleo famigliare attivi e famigliari non lavoratori (anziani e bambini), ma riporta solo il numero totale dei componenti. In definitiva le famiglie di agricoltori avevano un numero di componenti medio di 6,6; tutto questo è coerente ai nostri ricordi e alle nostre esperienze di famiglie di nonni e di bisnonni che erano numerose ben più delle famiglie attuali.

Ma gli agricoltori come esercitavano il loro mestiere? La maggior parte erano una figura professionale che oggi definiremmo “Coltivatori Diretti” che nel 1929 erano definiti “Conducono Terreni propri”. Si trattava di 147 famiglie su 242, un gran numero di famiglie nel 1929 viveva pertanto gestendo in proprio i terreni di famiglie. 93 famiglie erano famiglie di Coloni mentre solo 2 le famiglie di addetti all’agricoltura come lavoratori giornalieri.

LA COMPOSIZIONE DELLE AZIENDE AGRICOLE

Interessante anche approfondire la composizione delle aziende agricole: a Palazzago esistevano ben 319 aziende agricole che gestivano 1.103 ettari di terreno. La proprietà era molto spezzettata. Ben 177 aziende gestivano 178 ettari il che significa che il 55% di aziende agricole gestiva il 16% delle superfici agricole, testimonianza di una estrema frammentazione della proprietà e di una taglia aziendale minuscola, probabilmente uno dei fattori importanti nel disgregarsi della attività agricola avvenuto dopo il secondo dopoguerra quando con
l’avvento della meccanizzazione le aziende piccole hanno fatto fatica a sopravvivere.

In generale la dimensione media delle aziende era di quasi 3,5 ettari, una dimensione minuscola valutata con i parametri odierni di dimensioni delle aziende agricole. Per un paragone con il censimento agricolo del 2010 mediamente una azienda agricola lombarda gestisce 18 ettari.
Una sola “grande” azienda conduceva più di 20 ettari (in particolare 28) mentre le aziende con più di 10 ettari erano 14 con una dimensione media di 12,7 ettari.

LA ZOOTECNIA A PALAZZAGO

L’allevamento a Palazzago vedeva assolutamente preponderante l’allevamento dei bovini. Al censimento risultano 507 bovini, 53 suini e 46 ovini.

Interessante trovare il dettaglio delle tipologie di bovini che sono 122 vitelli o vitelle (sotto l’anno), 35 tra manze, manzette e giovenche, 322 vacche, 24 manzi e buoi, 4 torelli e tori.

LE COLTIVAZIONI AGRICOLE A PALAZZAGO

La parte legata alla coltivazione vede un’altra classificazione interessante degli ettari coltivati: innanzitutto vediamo come è suddiviso il territorio di Palazzago.

La superficie territoriale era (ed è) di 1.398 ettari. 51 sono gli ettari di superficie improduttiva che pertanto riduce l’area “agraria e forestale” a 1.347 ettari così suddivisi: 320 ettari di seminativi, 18 ettari di prati permanenti, 175 ettari di pascolo (presumibilmente la parte di pascolo relative alle pendici del Linzone con i monti Placca e Spino), 196 sono gli ettari dedicato alle “colture legnose specializzate” (viticoltura, frutta), 498 gli ettari di bosco (compresi i castagneti da frutto) e 140 i terreni “incolti produttivi”. Anche in questo caso la figura può rendere visivamente l’idea della composizione del territorio. Va notato comunque che ben il 37% del territorio era impiegato per una coltura specializzata, il che conferma una vocazione agricola di tutto rispetto, pari alla superficie coperta da boschi.

SEMINATIVI COLTIVATI A PALAZZAGO

Passiamo ora ai seminativi: 320 ettari erano equamente divisi essenzialmente in due coltivazioni: frumento (100% grano tenero) e granoturco. La suddivisione era perfettamente al 50% tra uno a l’altro con una resa media riportata di 20 quintali per ettaro per il frumento e 28 quintali per ettari per il granoturco.

COLTIVAZIONI LEGNOSE A PALAZZAGO

Le coltivazioni legnose a Palazzago erano invece dominate dalla vite: Palazzago era una delle località della bergamasca a maggiore vocazione vinicola. 148 erano gli ettari di coltura di vite specializzata (con una densità media di 8.000 piante ad ettaro e coltura prevalente a Guyot) cui di aggiungevano 77 ettari ci vite a coltura promiscua (con una densità di impianto di 1.500 piante ad ettaro). La produttività media di uva nelle superfici specializzate era di 59,9 quintali per ettaro. Da segnalare nelle coltivazioni promiscue 307 ettari con presenza di Gelsi con una densità di 150 gelsi a ettaro, un’altra rilevanza del nostro territorio.

Ultima nota: i boschi davano evidenza nel censimento di una produzione di 700 quintali di castagne.

I dati sono molto interessanti e sarebbe interessante confrontarli con i dati attuali di cui però è difficile trovare traccia.

Per qualsiasi informazione a approfondimento sul tema chiamatemi pure (Luciano 3924478942) o contattatemi via mail agricolaledriadi@gmail.com

Verso la vendemmia

Speriamo che il peggio sia passato…e che finalmente arrivi l’estate. In questo scorcio di fine primavera ho proprio pensato che i tropici e i monsoni si trasferissero da noi. A giugno nel vigneto sono caduti 251mm di acqua, il che equivale a 251 litri per ogni metro quadro, una colonna d’acqua enorme. Lo so, il dato non vuole dire nulla, ma per dare un’idea pensiamo che in tutto l’anno, fino al 18 giugno ne sono piovuti 714 di millimetri, questo vuole dire che nei primi cinque mesi dell’anno è piovuto il doppio di quanto è piovuto nei soli primi 18 giorni di giugno; è vero, non possiamo fare la media del pollo, è logico che la media è una media e terrà conto di mesi più e meno piovosi, ma tant’è che il giugno di quest’anno è stato un picco importante. Tanto per fare un paragone il luglio del 2014, che tutti ricordano come un luglio in cui “ha piovuto tutti i giorni” i mm di pioggia furono circa 200 nella stessa zona: parliamo in effetti di una prima metà di giugno eccezionalmente piovosa, una pioggia da record.

La vigna che sembra non ne abbia risentito: il carico di pioggia eccezionale ha lasciato le foglie “scoperte” della loro bio-protezione di zolfo e rame, ma non si intravedono per ora le avvisaglie delle due malattie temute dai viticoltori: lo iodio e la peronospora. Per contro i tralci raggiungono in alcuni casi il metro e mezzo; considerato che ad aprile erano germogli  un bel successo (in un altro articolo citai Munari che definì l’albero “l’esplosione lentissima di un seme”, definirei il tralcio di vite, l’esplosione quasi veloce di un germoglio…)

La dipendenza da fattori assolutamente naturali contro i quali ci si sente spesso impotenti è una caratteristica forte della mia “impresa” agricola: nulla è certo, tutto è trasformabile, i segnali di un’annata eccezionale possono essere distrutti da mezz’ora di grandine quanto da una pioggia insistente di qualche giorno. Settimana scorsa altri “nemici” ad esempio: un gregge di pecore ha invaso il vigneto: oddio, un po’ di pulizia all’erba non fa male, ma le pecore mangiano i germogli della vite? La cosa è ancora dibattuta in famiglia e dai “pensionati” che monitorano regolarmente il mio lavoro in vigna e che consulto spesso: “la pecora guarda in basso, non mangia i germogli!!” la sentenza più probabile, ma chi si fida?

E’ così che tra lo scortare l’orizzonte carico di nuvole nere, nel consultare i siti di previsione del tempo, nel telefonare ai vicini ansiosi: “ha grandinato?” e nel cercare sulle foglie i segni del temuto mal bianco (iodio) o della peronospora la riflessione porta sempre a pensare a quanto la nostra esistenza sia appesa a fenomeni naturali la cui evenienza condiziona irrimediabilmente e fatalmente oserei dire, il risultato stesso delle nostre azioni. E non c’è come avvicinarsi alla natura che il senso della nostra debolezza emerge a ricordarci che è lei la vera padrona.

Permettetemi una citazione colta sul senso della vita: da “Cuore di pietra” di Sebastiano Vassalli (Einaudi), l’epilogo finale.

“Ogni tanto gli Dei tornano ad affacciarsi sul golfo della pianura delimitato dalle montagne lontane, e applaudono e gridano stando sospesi lassù sopra le nostre teste, mentre assistono alle rappresentazioni di un autore che sa mescolare come nessun altro la tragedia e la farsa, e che si esprime con le vicende degli uomini pur restandone assolutamente estraneo: il tempo! Se gli uomini non esistessero sulla terra, lo spettacolo del tempo si ridurrebbe a ben poca cosa; ed è per questo motivo che gli Dei li hanno fatti esistere. Gli Dei di Omero – è risaputo – sono degli eterni bambini, e tutto li diverte: anche l’aggregarsi e il dissolversi delle nuvole, anche il cadere delle foglie in autunno e lo sciogliersi delle nevi in primavera hanno il potere di fargli schiudere le labbra, e di far scintillare i loro denti immortali; ma perché l’universo intero rimbombi delle loro risate bisogna mettere in scena ciò che il tempo sa fare con gli uomini, dappertutto e in quella pianura circondata dalle montagne che è, appunto, il loro teatro. Bisogna mostrargli la nostra protagonista com’ è adesso, vuota e buia e con i suoi saloni ingombri di calcinacci, di siringhe, di sterchi, di coperte insanguinate, di frammenti di vetro… Oppure, bisogna fargli vedere l’immensa pianura percorsa in ogni direzione da milioni di quei contenitori di metallo che noi chiamiamo automobili, e le piazze e le strade della città di fronte alle montagne, dove passarono cantando e schiamazzando i cortei delle bandiere rosse e quelli delle camicie nere, divenute percorsi obbligati per i nuovi mostri meccanici. Tutto sembra reale, adesso come allora e come sempre, ma è uno spettacolo del tempo: un’illusione, che di qui a poco svanirà per lasciare il posto a un’altra illusione. È perciò che le risate degli Dei rimbombano e rotolano da una parte all’altra del cielo con i temporali d’aprile, e che le loro grida d’incitamento spazzano la pianura con i venti d’ottobre. I personaggi di questa storia che è finita, e gli altri delle infinite storie che ancora devono incominciare, le loro futili imprese, le loro tragicomiche morti non sono altro che alcune invenzioni tra le tante di quell’eterno, meraviglioso, inarrivabile artista che è il tempo. È lui che ci parla con la nostra voce, che ci guida, che manipola i nostri desideri e i nostri sogni e alla fine cancella le nostre vite per sostituirle con altre vite, di altri uomini che noi non conosceremo mai. È lui che ci fa credere di essere il centro e la ragione di tutto, mentre ci ispira comportamenti e pensieri così stupidi che gli Dei ne ridono ancora quando ritornano lassù nel loro eterno presente, abbandonandoci agli sbalzi d’umore e ai capricci del nostro autore e padrone. Un suo battito di ciglia, e l’uomo che ha scritto questa storia non esisterà più; un altro battito di ciglia, e al posto della grande casa sui bastioni ci sarà un edificio di cristallo in cui si rifletteranno le nuvole e le montagne lontane; un terzo battito di ciglia, e i contenitori chiamati automobili saranno a loro volta scomparsi… Perché no? Soltanto gli Dei sono immortali, mentre tutto ciò che esiste nel tempo è destinato a perire. Homo humus, fama fumus, finis cines.”

 

Il benessere del pollo

Ha fatto molto effetto ultimamente vedere le immagini di come certe strutture industriali trattano gli animali che allevano per trasformarli in cibo. Mi riferisco al servizio di Report sul caso Amadori.
E’ vero, non si può fare di tutt’erba un fascio e nemmeno generalizzare, ma è importante riflettere sulle immagini che ci vengono proposte. Innanzitutto cerchiamo di separare le varie cose: una struttura industriale ha delle regole, dei  mezzi, degli obiettivi, delle strategie e delle persone. Parliamo delle persone: nei servizi si sono viste delle persone che mancano assolutamente del rispetto nei confronti degli animali che allevano; un conto è un sistema di allevamento inumano (il termine inumano può fare sorridere), un contro è infierire ricoprendo i polli con la propria urina come si è visto. Non credo che la strategia (e qui parliamo del secondo aspetto) dell’azienda sia quella di infierire sugli animali; certo, è significativo che i dipendenti non abbiano rispetto e si possano permettere di fare certe cose senza controllo, ma non credo sia questo il problema che invece è l’ignoranza di tali persone.
Ma allora quale è la strategia? La strategia della ditta in questo caso è evidente: il contenimento dei costi, la riduzione assoluta dei costi di gestione per massimizzare l’utile. E di utile ce ne è se è vero quanto scrive questa rivista sulla presentazione del bilancio 2014 (vedi questo LINK). Si vede però che il bilancio è da incorniciare.
Quale è la strategia commerciale? Quantità e basso prezzo: il prezzo deve essere competitivo sul mercato, il più competitivo. Quindi, fissato il costo per massimizzare il guadagno via a ridurre i costi. Parliamo di mezzi: sono fissi, i manager anno su anno a parità di strutture, devono aumentare il guadagno, ne va del loro bonus, di una parte variabile, magari considerevole del loro stipendio.
Come si fa? Lasciamo tutto uguale quanto è  struttura, manodopera e aumentiamo la densità di polli, maiali, quello che sia. Quanti polli ci stavano in stalla? 100, mettiamone 120, i costi sono più o meno uguali, non aumento le persone, “stringo un po’ gli animali” e produco con un costo a pollo inferiore; posso tenere il prezzo competitivo, guadagno sicuramente di più, da cui il famoso bilancio da incorniciare.
E’ vero sono tutte ipotesi ed illazioni, ma secondo me la realtà non è molto lontana.

Ma non finisce qui: aumento la densità, aumento il rischio di epidemie (ricordate l’aviaria?), facciamo prevenzione, cosa dite degli antibiotici? Il benessere dell’animale è direttamente proporzionale alla qualità e quindi bontà della loro carne, cosa dire di più.

E’ vero: a tutti fa comodo comprare un pollo al 3 euro al chilo, ma cosa compriamo?

L’invito alla consapevolezza e all’approfondimento di quanto mangiamo è sempre valido: siamo tutti vittime di quello che mangiamo e della qualità dei cibi che mangiamo, ricordiamocelo, e forse uno sforzo per ricercare qualcosa di meglio si può anche fare diffidando dell’affare che ci appare sotto gli occhi al supermercato.

Personalmente giudico Report un giornalismo che spesso eccede nell’evidenziare magagne “rinforzando” ed evidenziando aspetti particolarmente attrattivi che fanno colpo rispetto a dati veramente oggettivi (la pipì sul pollo è evidente che non è una prassi, ma fa colpo), ma ho letto la replica dell’allevatore alle accuse mosse che mi hanno lasciato senza parole: il primo punto di difesa è che le immagini sono vecchie di 6 mesi, come se sei mesi fosse un periodo e un era talmente lontana da giustificare tali immagini. Veramente sconcertante. Una risposta ingessata fredda e istituzionale, risponde a parole senza contrapporre i fatti. Se lo stabilimento è stato ristrutturato sarebbe stato meglio per Amadori contrapporre al prima il dopo dando una risposta franca e chiara.

Diamo una mano ai nostri contadini e PREMIAMO con la conoscenza, la consapevolezza, le pratiche virtuose di chi lavora seriamente.