Verso la vendemmia

Speriamo che il peggio sia passato…e che finalmente arrivi l’estate. In questo scorcio di fine primavera ho proprio pensato che i tropici e i monsoni si trasferissero da noi. A giugno nel vigneto sono caduti 251mm di acqua, il che equivale a 251 litri per ogni metro quadro, una colonna d’acqua enorme. Lo so, il dato non vuole dire nulla, ma per dare un’idea pensiamo che in tutto l’anno, fino al 18 giugno ne sono piovuti 714 di millimetri, questo vuole dire che nei primi cinque mesi dell’anno è piovuto il doppio di quanto è piovuto nei soli primi 18 giorni di giugno; è vero, non possiamo fare la media del pollo, è logico che la media è una media e terrà conto di mesi più e meno piovosi, ma tant’è che il giugno di quest’anno è stato un picco importante. Tanto per fare un paragone il luglio del 2014, che tutti ricordano come un luglio in cui “ha piovuto tutti i giorni” i mm di pioggia furono circa 200 nella stessa zona: parliamo in effetti di una prima metà di giugno eccezionalmente piovosa, una pioggia da record.

La vigna che sembra non ne abbia risentito: il carico di pioggia eccezionale ha lasciato le foglie “scoperte” della loro bio-protezione di zolfo e rame, ma non si intravedono per ora le avvisaglie delle due malattie temute dai viticoltori: lo iodio e la peronospora. Per contro i tralci raggiungono in alcuni casi il metro e mezzo; considerato che ad aprile erano germogli  un bel successo (in un altro articolo citai Munari che definì l’albero “l’esplosione lentissima di un seme”, definirei il tralcio di vite, l’esplosione quasi veloce di un germoglio…)

La dipendenza da fattori assolutamente naturali contro i quali ci si sente spesso impotenti è una caratteristica forte della mia “impresa” agricola: nulla è certo, tutto è trasformabile, i segnali di un’annata eccezionale possono essere distrutti da mezz’ora di grandine quanto da una pioggia insistente di qualche giorno. Settimana scorsa altri “nemici” ad esempio: un gregge di pecore ha invaso il vigneto: oddio, un po’ di pulizia all’erba non fa male, ma le pecore mangiano i germogli della vite? La cosa è ancora dibattuta in famiglia e dai “pensionati” che monitorano regolarmente il mio lavoro in vigna e che consulto spesso: “la pecora guarda in basso, non mangia i germogli!!” la sentenza più probabile, ma chi si fida?

E’ così che tra lo scortare l’orizzonte carico di nuvole nere, nel consultare i siti di previsione del tempo, nel telefonare ai vicini ansiosi: “ha grandinato?” e nel cercare sulle foglie i segni del temuto mal bianco (iodio) o della peronospora la riflessione porta sempre a pensare a quanto la nostra esistenza sia appesa a fenomeni naturali la cui evenienza condiziona irrimediabilmente e fatalmente oserei dire, il risultato stesso delle nostre azioni. E non c’è come avvicinarsi alla natura che il senso della nostra debolezza emerge a ricordarci che è lei la vera padrona.

Permettetemi una citazione colta sul senso della vita: da “Cuore di pietra” di Sebastiano Vassalli (Einaudi), l’epilogo finale.

“Ogni tanto gli Dei tornano ad affacciarsi sul golfo della pianura delimitato dalle montagne lontane, e applaudono e gridano stando sospesi lassù sopra le nostre teste, mentre assistono alle rappresentazioni di un autore che sa mescolare come nessun altro la tragedia e la farsa, e che si esprime con le vicende degli uomini pur restandone assolutamente estraneo: il tempo! Se gli uomini non esistessero sulla terra, lo spettacolo del tempo si ridurrebbe a ben poca cosa; ed è per questo motivo che gli Dei li hanno fatti esistere. Gli Dei di Omero – è risaputo – sono degli eterni bambini, e tutto li diverte: anche l’aggregarsi e il dissolversi delle nuvole, anche il cadere delle foglie in autunno e lo sciogliersi delle nevi in primavera hanno il potere di fargli schiudere le labbra, e di far scintillare i loro denti immortali; ma perché l’universo intero rimbombi delle loro risate bisogna mettere in scena ciò che il tempo sa fare con gli uomini, dappertutto e in quella pianura circondata dalle montagne che è, appunto, il loro teatro. Bisogna mostrargli la nostra protagonista com’ è adesso, vuota e buia e con i suoi saloni ingombri di calcinacci, di siringhe, di sterchi, di coperte insanguinate, di frammenti di vetro… Oppure, bisogna fargli vedere l’immensa pianura percorsa in ogni direzione da milioni di quei contenitori di metallo che noi chiamiamo automobili, e le piazze e le strade della città di fronte alle montagne, dove passarono cantando e schiamazzando i cortei delle bandiere rosse e quelli delle camicie nere, divenute percorsi obbligati per i nuovi mostri meccanici. Tutto sembra reale, adesso come allora e come sempre, ma è uno spettacolo del tempo: un’illusione, che di qui a poco svanirà per lasciare il posto a un’altra illusione. È perciò che le risate degli Dei rimbombano e rotolano da una parte all’altra del cielo con i temporali d’aprile, e che le loro grida d’incitamento spazzano la pianura con i venti d’ottobre. I personaggi di questa storia che è finita, e gli altri delle infinite storie che ancora devono incominciare, le loro futili imprese, le loro tragicomiche morti non sono altro che alcune invenzioni tra le tante di quell’eterno, meraviglioso, inarrivabile artista che è il tempo. È lui che ci parla con la nostra voce, che ci guida, che manipola i nostri desideri e i nostri sogni e alla fine cancella le nostre vite per sostituirle con altre vite, di altri uomini che noi non conosceremo mai. È lui che ci fa credere di essere il centro e la ragione di tutto, mentre ci ispira comportamenti e pensieri così stupidi che gli Dei ne ridono ancora quando ritornano lassù nel loro eterno presente, abbandonandoci agli sbalzi d’umore e ai capricci del nostro autore e padrone. Un suo battito di ciglia, e l’uomo che ha scritto questa storia non esisterà più; un altro battito di ciglia, e al posto della grande casa sui bastioni ci sarà un edificio di cristallo in cui si rifletteranno le nuvole e le montagne lontane; un terzo battito di ciglia, e i contenitori chiamati automobili saranno a loro volta scomparsi… Perché no? Soltanto gli Dei sono immortali, mentre tutto ciò che esiste nel tempo è destinato a perire. Homo humus, fama fumus, finis cines.”

 

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